Perché in Italia si parla così poco di virus?

È notizia di questi giorni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha richiesto di aumentare il grado di attenzione e sorveglianza nei confronti di un possibile outbreak di un nuovo ceppo di Coronavirus, chiamato Middle East Respiratory Syndrome coronavirus, che potrebbe portare ad una nuova forma di SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome).

Ricorderete tutti l’epidemia di SARS che, salita tragicamente alle cronache nel 2003, ha portato alla morte di 775 persone sulle circa 8000 colpite dal virus, principalmente nel continente asiatico.

Come si debbono comportare i ricercatori di fronte a questi delicati problemi di salute pubblica?

Questo interessante articolo, pubblicato recentemente sul Guardian, tratta di come sia cambiato il ruolo degli scienziati, e la relazione fra scienza e politica, dagli anni 90, quando “Mucca Pazza” salì agli onori della cronaca, ad oggi. In particolare questo cambiamento nasce attorno alla comprensione di alcuni punti cruciali:

  • La fiducia può solo essere generata dalla trasparenza

  • La trasparenza richiede il riconoscimento della situazione di incertezza, dove essa esiste

  • I consigli e le argomentazioni degli advisory comittees dovrebbero essere resi pubblici

  • La politica e la scienza debbono credere che sia possibile una risposta razionale a questa trasparenza da parte del pubblico

Nonostante queste riflessioni, in Italia di virus se ne continua a parlare poco. Come ha dimostrato nel 2010 uno studio condotto dall’Osservatorio Scientifico Observa, con cui ANBI ha collaborato lungamente sui temi di scienza e società, gli italiani sono più preoccupati per la propria salute dall’inquinamento che non dai virus.

Cosa dovremmo quindi fare noi ricercatori?

Anzitutto, per quanto ci compete, evitare gli allarmismi ed evitare il troppo spesso abusato emotivismo scientifico. Troppo spesso viene chiesto alla scienza di rincorrere le emozioni del pubblico, e questo porta ad abbassare la qualità e la credibilità dell’informazione.

Al tempo stesso è necessario comunicare, in maniera chiara, concisa, informativa e fruibile, perché l’opinione pubblica non può essere tenuta all’oscuro di eventi che possono avere un impatto determinante sulla vita di ciascuno di noi, solamente per evitare di creare panico e perché tanto “la gente non capirebbe”.

Dal punto di vista scientifico, l’Italia ha una buona posizione a livello internazionale (sia in relazione al PIL che agli investimenti in R&D) sulla cosiddetta “health literacy” come dimostrato da una analisi bibliometrica pubblicata su PlosOne qualche anno fa.

Tuttavia, molto deve essere ancora fatto per tradurre queste evidenze scientifiche in un modello di informazione fruibile da parte del cittadino. Passare quindi da una passiva “health literacy” ad una attiva comprensione ed influenza sulle politiche di “public health”. Torniamo quindi ad uno degli argomenti che ho già tante volte stressato, in pubblico e recentemente anche su questa rubrica, cioè la necessità di sistemi di governance che prevedano un ruolo da protagonisti per i ricercatori ed una strettissima relazione fra scienza, cittadinanza e politica.

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