Inglese? No, grazie!

Lo scorso anno, il Rettore del Politecnico di Milano, aveva annunciato il passaggio alla lingua inglese in tutti i corsi di laurea magistrale, tanto da aver solleticato l’interesse della BBC che aveva pubblicato un interessante articolo sull’argomento.

Purtroppo è notizia di questi giorni che il Politecnico dovrà dire addio a questo ambizioso progetto, poiché il Tar ha accolto il ricorso presentato da 150 professori contro il provvedimento approvato a maggio dello scorso anno dal Senato accademico.

Perché?

Su quale base questa riforma di buon senso (insegnare in lingua in un Politecnico che ha ambizioni internazionali non pare una follia) è stata definita illeggittima? Perché un regio decreto del 1933 definisce la centralità della lingua italiana in tutti i settori dello Stato, e quindi anche nell’Università pubblica.

Certo, viene da chiedersi come sia possibile che lo sviluppo culturale ed economico del nostro paese sia ancora dipendente da regi decreti, in una Italia che da allora si è lasciata alle spalle una dittatura, una guerra mondiale, la creazione dell’Unione Europea e la caduta del muro di Berlino. Un paese che sta inoltre vivendo un momento di profonda crisi e nel quale deve cercare di reinventarsi.

Passando dal piano “legale” a quello pragmatico, non è possibile non restare colpiti dalla scelta di ricorrere contro questa decisione, che trova, a mio avviso, una spiegazione in un dato semplice e inoppugnabile: gli italiani conoscono poco e male la lingua inglese, ed i docenti universitari non sono un’eccezione.

Nel 2012 è stato pubblicato uno studio condotto dall’Istituto Education First, che mostra come l’Italia si classifichi al 24° posto nella classifica della conoscenza della lingua inglese nel mondo. Lo studio ha calcolato l’indice medio di conoscenza della lingua inglese in 54 Paesi, su un campione di 2 milioni di persone.

 

L’Italia si classifica all’ultima posizione fra i paesi europei, e ad un passo dal gruppo di paesi con conoscenze di “Livello Basso”.

Le ragioni di questa debacle, e probabilmente anche delle barricate contro ogni provvedimento di liberalizzazione linguistica che ci proietti nel mondo globalizzato di oggi, sono imputabili all’inadeguatezza del sistema scolastico. Solo dieci anni fa l’insegnamento della lingua inglese è stato incluso come obbligatorio nella scuola primaria, ed anche oggi la valutazione dell’insegnamento dell’inglese a tutti i livelli è tutt’altro che prassi. Una delle misure di questa affermazione sta nelle forti polemiche delle scorse settimane, da parte dei docenti, nei confronti dell’introduzione di una prova di inglese nei test Invalsi.

Un problema Made in Italy?

Il numero di corsi di laurea insegnati in inglese è sempre crescente, e secondo i dati della European University Association, ci sono più di 5.000 corsi universitari insegnati in questa lingua in Europa.

L’indagine CRUI 2012 rileva l’offerta formativa svolta totalmente in lingua inglese nell’anno accademico 2011-2012, che consiste di 165 corsi di laurea magistrale ed appena 20 corsi di laurea triennale in tutta italia. Numeri bassi, per un paese del G8 come l’Italia, che vanta il primato di aver fondato la prima Università europea, a Bologna nel 1088.

E pensare che, proprio nel 2012, la Conferenza dei Rettori supportava l’importanza di creare una offerta formativa in lingua inglese, con il compito di “rendere più attrattiva l’Università italiana agli studenti stranieri” e “formare gli studenti italiani ad un’apertura verso il mondo lavorativo e/o scientifico a livello internazionale”.

Durante gli ultimi venti anni, la Commissione Europea ha lanciato diverse iniziative finalizzate a promuovere l’internazionalizzazione e la mobilità all’interno dell’Area Europea della Formazione Avanzata, dall’Erasmus all’Erasmus Mundus e, all’interno del futuro programma quadro Horizon 2020 verrà creato Erasmus for All, che riunirà tutte le tipologie di finanziamento per la mobilità e la formazione avanzata dei giovani a livello trans-nazionale.

Nonostante ciò, ancora oggi un terzo degli studenti internazionali che partecipano ad iniziative di mobilità selezionano università inglesi o statunitensi.

Serve una politica di forte rinnovamento nell’Università, che permetta a paesi come l’Italia, che debbono rilanciare la propria economia investendo in innovazione, di facilitare la mobilità in entrata ed in uscita dei migliori studenti nazionali ed internazionali.

Solo così potremo garantire un futuro al nostro paese, che non ha più la possibilità di votarsi al protezionismo culturale di, reali o presunte, eccellenze puntuali (spesso in discipline lontanissime dall’avere un impatto economico concreto) basate sulla nostra lingua madre.

 

@s_maccaferri

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