Innovare? No, grazie

E’ stata in una delle piovose e cupe giornate brusselesi del dicembre del 2006 che è avvenuta la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale europea di uno dei testi più significativi ed originali della legislazione alimentare europea. L’emozione dei funzionari doveva essere tale che sbagliarono ad inviare il testo per la pubblicazione e, dopo la prima versione pubblicata il 30 dicembre 2006 (giusto in tempo per poter brindare al capodanno), si dovette pubblicare una rettifica il 18 gennaio del 2007.

Con il Regolamento (CE) n. 1924/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, l’Unione si è data regole armonizzate, cioè valide in tutti i paesi europei, “sulle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari”. In realtà, non si è solo armonizzato, ma si sono date regole che prima proprio non c’erano in gran parte d’Europa.

In pratica, cioè, con il regolamento, per dire che il prosciutto cotto che piace tanto alla nonna con la pressione alta, ha poco sale, non posso inventarmi io il criterio, ma devo garantire che ci siano non più di 120 mg (più correttamente, 0,12 g, secondo la norma) per 100 g di prodotto. Se voglio dire che la mia marmellata è senza zuccheri aggiunti, così lo zio diabetico può consumarla, non posso metterci il succo di mela concentrato (che è praticamente zucchero) e giocare sul fatto che non ci ho messo saccarosio puro; devo proprio evitare di aggiungere qualsiasi sostanza a fine dolcificante (con zuccheri). Non solo, per dire che un prodotto è “leggero”, destinato ai quarantenni che alla linea ci devono badare, devo dimostrare che ha almeno il 30% in meno di grassi, zuccheri, e così via, rispetto a prodotti analoghi.

Gli obiettivi della norma sono in effetti molteplici, ma c’è anche quello di fornire uno strumento ulteriore contro l’epidemia dell’obesità. E’ un parere sempre più condiviso che una riformulazione degli alimenti, con meno grassi, sale, zuccheri, sia importante per ridurne l’entità: il regolamento offre l’incentivo di un claim pubblicitario forte per chi vende prodotti più sani.

Ma il regolamento va oltre. Regolamenta anche le indicazioni sulla salute.

In questa categoria, c’è lo yogurt che fa bene alla regolarità dell’intestino, come il calcio che rafforza le ossa. C’è la melatonina che aiuta a superare il jet lag, ci sarebbero gli antiossidanti naturali e tanto altro.

Senza entrare troppo nei dettagli, il regolamento stabilisce che le evidenze per fare queste affermazioni – secondo meccanismi diversi per dati già esistenti e dati nuovi – devono essere sottoposte all’EFSA, l’Autorità europea di sicurezza alimentare, che ne valuta la qualità scientifica. Poi la Commissione Europea con gli Stati decidono cosa fare. Una lunga lista è stata autorizzata, mentre molte più richieste sono state respinte.

Fiumi di inchiostro, anche della mia penna, sono stati versati sui meriti e demeriti delle valutazioni fatte da EFSA, sull’enfasi data agli studi randomizzati a doppio cieco con placebo (a proposito, ai più fanatici segnalo il nuovo “gioco” Randomise Me), secondo alcuni poco applicabili agli alimenti.

Con tutti i limiti del caso, si è però introdotto un meccanismo per cui la ricerca scientifica è il requisito del marketing nutrizionale e salutistico. Con la minaccia dell’epidemia dell’obesità e le promesse delle varie omiche, difficile pensare che sia l’approccio sbagliato.

Per essere efficace, una norma deve però essere applicata. Sono pochi giorni che il Consiglio dei Ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo con le sanzioni per chi viola il regolamento (le sanzioni sono di competenza nazionale). Evidentemente nella predisposizione del testo, l’importanza dell’innovazione per l’Italia non è potuta essere presa in considerazione, forse perché non sono state coinvolte le competenze giuste.

Con sanzioni massime di poche decine di migliaia di euro, e competenza affidata agli ispettori d’igiene locali (e non ad un nucleo qualificato nazionale), è poco probabile che le sanzioni possano incidere sui comportamenti delle imprese più grandi – proprio quelle che avrebbero i budget per fare ricerca, e se multinazionali per garantire qui la qualità della loro ricerca.

Le piccole, al contrario, rischiano di essere tartassate – vista l’assenza di proporzionalità (le sanzioni hanno una forbice, ma con la nostra legislazione si può pagare un terzo del massimo e chiudere ogni contenzioso) – e quindi, per prudenza, dovranno evitare di formulare prodotti nutrizionalmente più validi, o farlo senza dirlo.

Possiamo davvero pensare di arrestare il declino italiano se spostiamo gli incentivi a favore del gridare di più attraverso il marketing invece che a favore della ricerca nutrizionale e salutistica per un marketing basato sui fatti?

Secondo la mia umile opinione, no.

@lucabuk

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