Un’Università da Champions

Lo scorso 19 settembre, la manifestazione #iostoconlaricerca ha cercato di avvicinare la società civile alle esigenze ed alle istanze del mondo dei ricercatori, soprattutto in relazione ad alcuni provvedimenti legislativi non basati su evidenze scientifiche nati colpevolmente in seno alla politica, senza nessuna discussione e dibattito con la scienza.

Davide Ederle, in un suo recente editoriale, ha però osservato come il peccato originale sia a monte e legato al mancato investimento nella ricerca biotecnologica e biomedica, che porta così ad uno scollamento fra risultati della scienza ed attese della società.

Questa analisi è corretta, e può esser estesa al mondo dell’Università e della Ricerca, come emerso anche dai recenti dati del QS University World Ranking.

Nelle prime 800 Università al mondo, solo 26 sono italiane, e la prima classificata – l’Università di Bologna – si colloca al non invidiabile 188° posto, e la situazione è da più di qualche anno che si trascina.

Da quando mi sono approcciato al mondo dell’Università, ed ho iniziato a studiarne le dinamiche, si sono succeduti in Italia tanti ministri, e sono state varate diverse riforme, alcune di forma ed altre di sostanza. Nessuna di queste, però, è riuscita ad aggredire le motivazioni reali che portano all’alimentazione di un crescente spread tra l’Università italiana e quelle inglesi e tedesche, per restare nel contesto europeo.

Per spiegare meglio le necessità dell’Università italiana, vorrei fare un paragone con la Serie A. Perché Università e calcio non sono così diverse come potreste pensare.

Una università vincente si basa sul mix di tre elementi fondanti: la qualità dei ricercatori e dei docenti; un management capace; l’attrattività verso gli “esterni” (studenti che si iscrivono, investitori che finanziano la ricerca e la didattica).

Così come per una squadra di Serie A, la qualità dei propri professionisti fa la differenza. Il problema è che, per migliorare la propria squadra, l’allenatore ed il direttore sportivo di una squadra possono fare “mercato” durante l’estate, andando così a colmare le lacune nella rosa.

Il direttore di un dipartimento universitario invece si trova dinanzi a diversi problemi.

In primo luogo, salario lordo, benefit e buona parte dell’assetto del welfare non sono in capo al management universitario. Se ad una squadra di serie A serve un centravanti che segni per garantirsi la salvezza, potrebbe decidere di fare sacrifici per garantire un ingaggio tale da strappare quel fuoriclasse alla concorrenza.

Nell’Università italiana, il fuoriclasse della ricerca ed il mestierante che tira a campare con il minimo possibile di pubblicazioni, costano uguale.

 

 

Anzi, se il meno bravo dei due ha una maggiore anzianità di servizio, guadagnerà più del fuoriclasse. Perché il merito non è premiato.

Un altro problema significativo riguarda l’attrattività verso l’esterno. Per poter competere con le migliori Università nel mondo, le Università italiane debbono esser “globali” e riuscire ad attrarre i migliori ricercatori e docenti. Con i meccanismi attuali di selezione, è molto difficile che un bravo ricercatore, diciamo canadese, si imbarchi nelle scarse certezze delle abilitazioni nazionali (a proposito, dove sono? Dovevano uscire i risultati in primavera, è ora scattata l’ennesima proroga al 30 novembre) e dei concorsi all’italiana. Ed è ancora più difficile che lo faccia visto che l’Università italiana disincentiva la didattica in inglese: come potrebbe fare lezione agli studenti in italiano, quando lui, diciamo nordeuropeo, fa lezione in inglese nel Canada francofono?

Piccoli e grandi problemi che, messi in fila gli uni agli altri, fanno sì che le Università italiane non possano scalare le classifiche mondiali. Ed anzi, debbono far fruttare al massimo le capacità di chi è rimasto a lottare contro la burocrazia per non soccombere dinanzi alla forte ascesa delle università dei paesi BRICS e del sud-est asiatico.

Sarebbe come pensare che una nobile decaduta della Serie A, senza investimenti, senza capacità di attrarre i talenti migliori, senza soldi da investire in nuove strutture, ma con una pachidermica spesa in burocrazia, potesse vincere la sfida in Europa.

 

L’ultima volta è accaduto il 24 maggio 2010, quando l’Inter ha vinto la Champions League contro i virtuosi tedeschi del Bayern Monaco. Quando ricapiterà?

(#amala)

@s_maccaferri

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