La scienza sta davvero male?

Nel numero di questa settimana, il periodico britannico The Economist ha pubblicato un interessante, e provocatorio, editoriale “How science goes wrong” in cui vengono passate in rassegna una serie di criticità dell’attuale sistema di auto-regolamentazione del mondo scientifico. “La ricerca scientifica ha cambiato il mondo, ed ora deve cambiare se stessa” asserisce la rivista inglese.

Quali sono i problemi riportati?

Il nucleo della questione è la credibilità della scienza agli occhi del mondo esterno, prerequisito fondamentale per poter richiedere che le evidenze scientifiche siano la base per le politiche del nostro secolo. Purtroppo, questa credibilità è messa in dubbio da troppi risultati che derivano da disegni sperimentali totalmente inadeguati, analizzati in maniera statisticamente erronea o, talvolta, addirittura falsi.

Lo scorso anno, Amgen ha dimostrato che appena sei di 53 ricerche milestone nello studio del cancro potevano essere replicate. Allo stesso modo, la tedesca Bayer è stata in grado di replicare appena un quarto di 67 pubblicazioni nell’ambito farmaceutico. Un altro dato preoccupante riguarda gli 80.000 pazienti che nel decennio 2000-2010 hanno preso parte a trial clinici i cui risultati sono stati successivamente ritrattati a causa di errori di varia natura.

Non dobbiamo, quindi, fidarci più delle pubblicazioni scientifiche? No, sicuramente no, ma del problema della sempre crescente difficoltà di pubblicare solide ricerche a dispetto della cosiddetta “sexy science” ne avevo scritto già diverso tempo fa.

I problemi sono vari. In primo luogo, la pressione sui ricercatori per la pubblicazione di un alto numero di articoli scientifici su riviste prestigiose sta crescendo esponenzialmente. Le riviste a più alto impact factor poi sono spesso riviste generaliste, e pongono poca attenzione alla trattazione statistica e alla solidità sperimentale, in ragione della appetibilità e della fruibilità del risultato pubblicato, in ottica di divulgazione ad ampio spettro.

È questo uno dei motivi per cui, rispetto agli anni Novanta, sono calati dal 30 al 14% il numero di articoli scientifici che riportavano risultati negativi. In America stanno correndo ai ripari su questo versante, e l’NIH, ad esempio, ha aumentato i finanziamenti stanziati per incoraggiare i gruppi di ricerca a replicare studi già pubblicati.

Per ricreare una credibilità a tutto tondo del mondo scientifico, come ho più volte ribadito, serve a mio avviso porre la centralità sui prodotti della ricerca, prima che sugli indicatori usati per misurarne la loro bontà.

Valutare i ricercatori ed imporre loro una lotta, anche dura, per la carriera nel mondo accademico è comunque fondamentale, e non deve esser messo in discussione il principio della valutazione della scienza. Quello che deve però cambiare è la fiducia incondizionata verso gli indici bibliometrici, i meri numeri delle pubblicazioni, che di per sé significano poco, in ragione di una enfasi maggiore sulla valutazione della capacità di creare valore insita nella ricerca svolta.

Per un Sistema Paese, la capacità di attrarre finanziamenti, commercializzare i prodotti della ricerca, trasferire e rendere fruibili i risultati della ricerca di base, sono i mezzi migliori per valutare la capacità dei ricercatori di rendersi credibili agli occhi dei cittadini.

@s_maccaferri

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