Fondi premiali? In Italia, NO, grazie.

La storia di cui scrivo oggi è, a mio avviso, una delle classiche saghe all’italiana riguardanti le politiche economiche e la governance dell’Università. Una storia che, a seconda di come la vogliate interpretare, può essere raccontata e compresa sotto vari punti di vista.

La scorsa settimana, con soddisfazione, lessi sul Sole 24 Ore: “Legge di stabilità promossa dai rettori: per la prima volta non ci sono tagli”. Una svolta pressoché epocale, visto che in questi anni in cui ho frequentato l’Università, quasi mai ricordo di finanziarie generose verso il mondo accademico, e quasi sempre – anzi – ricordo di levate di scudi da parte della CRUI. Un plauso, quindi, a Maria Chiara Carrozza, che caparbiamente (pur con qualche limite) sta tentando di difendere quell’ecosistema dell’innovazione dove è nata e in cui ha lavorato fino a pochi mesi fa.

Fossimo in un paese normale avrei potuto chiudere qui il mio editoriale, ringraziando il ministro, da dipendente universitario. Purtroppo l’Italia non è un paese normale, anzi.

Il nodo del contendere, in questo caso, sta in un emendamento del Governo al Decreto Scuola, che andrebbe a garantire, all’interno del fondo di finanziamento ordinario (FFO), un extra-gettito di 41 milioni per gli atenei virtuosi.

L’allocazione di una quota premiale nel FFO deriva da uno degli ultimi atti di Fabio Mussi, durante il suo periodo di Ministro del Governo Prodi, ed ha raggiunto l’attuazione nel “Pacchetto Università” lanciato da Maria Stella Gelmini.

In particolare, in seguito alla prima valutazione da parte dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR, di cui ho già scritto su Prometeus) disponiamo già oggi di quelle rilevazioni che, per il legislatore dovranno essere determinanti per distribuire una parte del Fondo di finanziamento ordinario alle Università ed agli Enti di ricerca che raggiungeranno i risultati migliori.

Di ANVUR, di valutazione dell’Università e di allocazione di fondi premiali si parla dal 2009. Perché allora sono sorti problemi ora?

Perché le Università italiane non stanno così bene come forse qualcuno si sarebbe atteso, prese da un’estrema frammentazione di eccellenze che non ne permette una valorizzazione piena. E da un tasso troppo alto di docenti inattivi, soprattutto in alcuni atenei del Sud, come Napoli o Bari.

In particolare, si è formata, a seguito dei risultati dell’ANVUR, una ampia cordata di Rettori degli Atenei del Sud che, richiedendo maggiore equità, hanno chiesto a gran voce che venisse riconsiderata la norma che attuava la premialità nella distribuzione delle risorse.

Fra gli Atenei che stanno peggio vi è quello di Bari, il cui Rettore, in una recente intervista a Repubblica, ha dichiarato:

“La valutazione della qualità va coniugata con un principio di sussidiarietà guardando alle esigenze dei territori. Ci stiamo muovendo con tutti i rettori del Mezzogiorno, non solo pugliesi, ma anche di altre regioni come Molise, Campania e Sicilia”.

Ecco, questa dichiarazione, a mio avviso, racchiude in sé il peggio del nostro paese. Un paese che conosce le leggi, ma ne chiede una applicazione diversa a seconda dei casi specifici. Cercando di smuovere il pietismo dell’opinione pubblica puntando alle esigenze del Mezzogiorno.

Se un management universitario non è stato in grado di adeguarsi, in quattro anni, all’attuazione di una legge dello stato che prevedeva la premialità derivante dalla valutazione dell’ANVUR, è un management scadente. Che merita di essere cambiato. E se non sussistono le condizioni per il mantenimento di un’Università, anche storica come quella di Bari, per carenze strutturali o di finanziamenti, questo ateneo, piuttosto che lavorare in maniera errata, pensando al presente e non al futuro, deve chiudere o deve accorparsi in federazioni di università capaci di essere maggiormente competitive.

Com’è finita la storia probabilmente lo sapete.

I 41 milioni di extra-gettito per le Università virtuose sono, magicamente, spariti per un fantomatico problema contabile. La Conferenza dei Rettori, per bocca del Presidente Paleari, si dice indignata, ed il Ministro Zanonato dichiara: “Non abbiamo capito bene cosa sia successo“.

L’Italia deve vedere tornare l’Università e la Ricerca al centro dell’agenda di governo del paese. E ciò deve avvenire attraverso una reale riforma del sistema universitario, che deve essere migliorato e reso funzionale a mantenere la qualità della ricerca e della didattica in linea con gli standard internazionali.

Non servono solo fondi in più all’università, ma serve che i fondi erogati seguano delle logiche di razionalizzazione. Se continueremo a pensare al bilancio dello stato in un’ottica di sussidiarietà svincolata dagli indicatori di risultato, non saremo mai un paese competitivo.

PS: per chi fosse interessato, su quest’ultimo punto ne ho discusso anche la scorsa domenica alla Leopolda 2013, a Firenze. Trovate il mio intervento a questo link.

 

 

 

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