Uno spettro si aggira per l’Europa

Per l’Europa si aggirano diversi spettri.

Per quanto riguarda la sicurezza alimentare, uno dei più temuti (e il cui nome molti pronunciano solo in privato e a bassa voce) si chiama Campylobacter.

Questo allegro – perché finora poco disturbato da interventi umani- batterio abita (principalmente) nell’intestino di alcuni polli. Alla macellazione a volte finisce per contaminare la loro carne e poi, se la cottura è scarsa o si è contaminato per sbaglio l’insalata (qui le istruzioni per contaminare), nel nostro intestino.

Mentre ai polli Campylobacter fa poco o nulla, a noi può far venire diarrea, febbre e dolori addominali. La diarrea poi passa, raramente porta a conseguenze gravi (ma ci sono delle eccezioni, purtroppo, e più comuni che per norovirus). Per i bambini molto piccoli, sotto i due anni, c’è una maggiore frequenza, e maggiori rischi.

Nell’Unione europea sono riportati alle autorità annualmente 190,000 casi, secondo EFSA, ma gli esperti stimano che siano almeno 9 milioni. Il costo per l’economia dell’Europa è stimato, sempre da EFSA, in 2,4 miliardi di euro all’anno.

Si tratta della più diffusa infezione trasmessa dagli alimenti in tutta la UE.

Insomma, ci si potrebbe fare l’idea che ci siano come per Salmonella, o come per Listeria monocytogenes, o come E. coli verocitotossico, limiti di legge, analisi, controlli ufficiali, sequestri, richiamo, e così via.

E invece no. Altrimenti non sarebbe uno spettro.

Certamente, Campylobacter è stato riconosciuto per il suo ruolo in sanità pubblica relativamente da pochi anni (per difficoltà analitiche) e non è del tutto vero che, anche in Italia, non si facciano analisi e una certa sorveglianza. Le positività si riscontrano poi spesso in alimenti che devono essere cotti (con i problemi di cui si è parlato qui).

Non solo. La scienza su questo patogeno non rivela uno scenario semplice.

Infatti, non è solo la carne di pollo a poter essere contaminata: un ruolo lo hanno anche altri fattori ambientali (per esempio piscine domestiche poco curate) o il contatto diretto con gli animali.

Certamente però il pollame ha un ruolo chiave.

Ma allora perché non si procede?

La risposta si trova, tra l’altro, in un interessante rapporto del RIVM, l’Istituto Nazionale di Sanità pubblica e per l’Ambiente olandese, che, in campo alimentare, è probabilmente l’istituto più serio ed autorevole in Europa:

in Olanda, tra il 61 e 75% dei lotti di pollo sarebbe contaminato se misurato a livello di pelle; se a livello di petti di pollo, tra il 38 e il 40%.

Non si tratta quindi di colpire pochi prodotti, ma – se si guardasse solo alla presenza del patogeno – di eliminare quasi la metà di tutta la carne di pollo che viene prodotta.

Che è insostenibile.

(in Italia, poi, la situazione, per ragioni climatiche, potrebbe essere anche peggio).

Di conseguenza, i ricercatori del RIVM suggeriscono di cercare dei limiti (numero di batteri) che riducano il rischio per la popolazione, senza portare all’eliminazione di grossi quantitativi di carne (pare che il congelamento dei lotti contaminati, anche se non perfetto, riduca notevolmente il rischio). Propongono quindi di contare i batteri nel pollo contaminato, e su questa base decidere cosa fare.

Notano, tra l’altro, che, se nessun macello riesce ad eliminare il rischio, alcuni macelli hanno procedure evidentemente migliori.

Alla fine, concludono che fissare un limite di 1000 batteri di Campylobacter per grammo di pollo ridurrebe le malattie nella popolazione di due terzi (riduzioni maggiori sarebbero insostenibili al giorno d’oggi). Il pragmatico governo olandese pensa tra l’altro non di fare trattare o eliminare i prodotti non conformi, ma solo di costringere i macelli che non riescono a centrare questi valori con continuità a migliorare le proprie pratiche produttive.

Secondo il RIVM, il costo per l’industria olandese sarebbe di 2 milioni di euro, ma, senza considerare le sofferenze e contando solo i soldi, il risparmio sanitario sarebbe di 9 milioni di euro.

Quindi, almeno gli olandesi sono pronti a togliere il velo allo spettro?

I dubbi e le esitazioni restano, anche perché in un mercato comunitario le aziende non potrebbero passare semplicemente il costo al consumatore (sarebbero frazioni di centesimo per chilo di pollo) senza subire la concorrenza di chi non deve sobbarcarsi i costi analitici e di miglioramento delle procedure. Vedremo.

Il RIVM rileva un aspetto comunque interessante – ed è un caso comune nel campo della sicurezza alimentare – che, se i benefici di maggiori controlli sono diffusi nella società (tra chi resta sano e la minor spesa sanitaria), i costi sono imputabili a specifici soggetti, i produttori, che ricevono ben pochi benefici.

Serve quindi un intervento pubblico per riequilibrare i costi? Una soluazione fiscale? O una comunitaria per gravare tutti in modo uguale?

O la soluzione è, come sostiene Doug Powell, che le aziende scrivano in etichetta se fanno i controlli per limitare anche Campylobacter in modo che il consumatore scelga il più produttore serio?

Ognuno può dire la sua, e una soluzione efficace può variare da contesto a contesto. In ogni caso, il problema di chi paga va posto.

Per ora, però, mi accontenterei che si decidesse di affrontare lo spettro.

@lucabuk

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