EXPO: perché vale la pena visitarla

È opportuno subito un coming out. Sono #expottimista, ovvero sono tra coloro che hanno creduto nella candidatura milanese, nel tema scelto e, soprattutto, che “tra Smirne e Milano, tutta la vita Milano”. Questo non significa negare le contraddizioni che hanno accompagnato il percorso verso EXPO, né affermare che questo è l’EXPO dei sogni, solo che, come italiano e anche come biotecnologo, l’EXPO non avrei voluto vederlo altrove né avrei voluto che parlasse d’altro.

Premesso questo, veniamo al punto: EXPO merita di essere visitata. Non perché è bella, anche se (per lo meno dal punto di vista architettonico e dell’esperienza emozionale) lo è davvero. Nemmeno perché è un’occasione unica per il nostro paese (anche se pure questo è vero). È importante andarci soprattutto perché EXPO è una fotografia del nostro tempo. Una fotografia di come il nostro mondo e, in particolare, le élite nazionali che lo governano vedono la sfida “nutrire il pianeta”. La fotografia di una sfida che abbiamo già sostanzialmente vinto e dove non resta che decidere come spartire, equanimamente, la torta.

Non più di una cinquantina d’anni fa però la pensavamo molto diversamente quando, con la firma del Trattato di Roma nel 1957, si è sancita la nascita di quella cosa che sarebbe poi diventata l’Unione Europea. Al centro di quel trattato avevamo infatti messo l’agricoltura, e soprattutto la consapevolezza che se si volevano evitare devastanti carestie, che all’epoca non di rado affliggevano anche il vecchio continente, era necessario che i paesi si dessero politiche comuni e che queste, pragmaticamente, puntassero soprattutto a sostenere gli agricoltori e l’innovazione del settore. Non a caso l’art. 39 di quel trattato aveva le idee molto chiare su quel che doveva essere fatto:

ARTICOLO 39
1. Le finalità della politica agricola comune sono:
a) incrementare la produttività dell’agricoltura, sviluppando il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola come pure un impiego migliore dei fattori di produzione, in particolare della mano d’opera,
b) assicurare cosi un tenore di vita equo alla popolazione agricola, grazie in particolare al miglioramento del reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura,
c) stabilizzare i mercati,
d) garantire la sicurezza degli approvvigionamenti,
e) assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori.

Una unità e chiarezza di visione che in pochi anni ha permesso di garantire gliapprovvigionamenti alimentari del continente e di scongiurare il ripetersi di crisi alimentari.

Oggi questa necessità di sostenere l’innovazione agricola non pare più rientrare tra le priorità del sentire comune, anzi, l’utilizzo di sistemi intensivi (o anche solo moderni) di produzione agricola viene spesso percepito come “contro natura“. Qualosa da cui stare alla larga. EXPO evidenzia questo radicale cambio di prospettiva, che sposta il baricentro della discussione dal campo alla tavola, a partire proprio dal documento che ne cosituirà l’eredità più significativa: la Carta di Milano. Lo evidenziano soprattutto i padiglioni nazionali dove, se non in rarissimi casi (si veda ad esempio Israele o la Francia), di terra si parla poco e se ne vede ancora meno. Quando lo si fa, lo si fa inoltre con approssimazione e poca convinzione, privilegiando suggestioni (dai pomodori su Marte al basilico sul fondo del mare), realtà virtuali, e dando ampio spazio, più che al cibo, alla emo-gastronomia (non si assaggia in EXPO, si vive semmai l’emozione dell’assaggio). Senza disdegnare qua e là veri e propri strafalcioni.

Eppure, nonostante dal Trattato di Roma sia trascorso più di mezzo secolo, e larivoluzione verde abbia permesso di raddoppiare (più che raddoppiare, in realtà) la produzione mondiale di cibo, l’agricoltura resta ancora la prima linea su cui si combatte la difficile e a volte impari lotta per la sicurezza alimentare planetaria. Un paio di esempi:

Ug99 è un nuovo ceppo fungino responsabile della ruggine nera, una malattia che devasta letteralmente il grano e che fino ad ora si riteneva sotto controllo. Comparso per la prima volta in Uganda nel 1999, può arrivare a “mangiarsi” anche il 70% del raccolto e il 90% di tutte le varietà oggi coltivate, incluse le nostre, sono sensibili al suo attacco. Che si fa?

Alcuni ricercatori italiani si sono chiesti cosa succederà alla nostra agricoltura quando la concentrazione di CO2 atmosferica, nel suo inarrestabile rally, raggiungerà nel 2050 le 580 ppm. I risultati dello studio fanno riflettere. Grazie all’aumento di anidride carbonica, i nostri grani da pasta produrranno infatti molto di più, il che è una buona notizia. La cattiva è che la pasta che ne ricaveremo non sarà però in grado di mantenere la cottura. Che si fa?

Nutrire il pianeta dovrà fare i conti con queste piccole e grandi sfide estremamente concrete, che non ammettono sconfitta se non a caro prezzo. In EXPO però sono invisibili coloro che si sono fatti e si dovranno fare carico di affrontarle: agricoltori e ricercatori. Non tanto nei seminari tecnici, che non mancano ma che i visitatori disertano, piuttosto nei meravigliosi padiglioni multimediali voluti e disegnati dai governi. E nessuno, lì, pare accorgersi della loro mancanza. Andateli a cercare.

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