Fiat iustitia

All’inizio del 2009, un’azienda americana produttrice di burro d’arachidi e altri ingredienti a base di noccioline ordinò uno dei ritiri dal mercato più imponenti degli anni recenti. Il richiamo dal mercato coinvolse ben 3900 prodotti; ben 350 aziende diverse utilizzavano come ingredienti prodotti della Peanut Corporation of America (PCA).

Non si trattava di un’azione precauzionale: la contaminazione del burro d’arachidi con Salmonella Typhymurium stava già seminando infezioni e decessi per gli tutti gli Stati Uniti. Secondo le stime, le persone coinvolte finiranno per essere almeno 714 (infezioni), nove i morti.

Le indagini hanno dimostrato poi che la PCA aveva già ottenuto risultati analitici da laboratori esterni che confermavano la presenza del patogeno; i manager però decisero di ignorarli e nasconderli ai propri clienti. Non solo, arrivarono al punto di inventare falsi risultati analitici, alterando quelli sgraditi e inventando analisi mai fatte.

Se tutto questo è vero, credo che sia difficile non essere d’accordo con l’intenzione del Dipartimento di Giustizia di perseguire penalmente e tentare di mandare in prigione i responsabili. Nel frattempo, tra l’altro, la PCA è finita in bancarotta e i manager hanno spiegato che proprio la situazione finanziaria li ha portati a ritardare il ritiro dal mercato e a falsificare i risultati.

Quando si è responsabili di un’azienda alimentare, si può – per fortuna raramente – essere chiamati a decisioni di questo tipo: vita dei consumatori o azienda. Se si tratta di fibra morale e coraggio per una buona percentuale, certamente anche gli incentivi previsti dalla legge contano: se i dirigenti della PCA fossero stati diligenti, la loro posizione sarebbe diversa.

Dalla Georgia e dal Texas della PCA, torniamo invece in Italia. Se un caso analogo si verificasse nel Belpaese, si verificherebbero probabilmente due cose. La prima è che, se i casi non fossero stati molto concentrati geograficamente e i numeri fossero stati un po’ meno clamorosi, dal lato epidemiologico (gli epidemiologi raccolgono i dati sui casi di malattia e cercano di interpretarli, ma devono avere un sistema di sorveglianza funzionante) non sarebbe venuto nessun allarme. La seconda è che, se la contaminazione fosse emersa in un qualche modo, la vicenda, casi di malattia o no, avrebbe avuto conseguenze penali per i responsabili.

Nel nostro sistema, infatti, con alcune eccezioni più recenti, il responsabile di un’azienda risponde comunque penalmente della contaminazione di un alimento. La legislazione alimentare europea gli impone invece di segnalare immediatamente all’autorità e di intervenire per ritirare appena scopre che un suo alimento, nonostante tutti gli sforzi, è risultato contaminato.

Quindi, visto che per una mentalità italiana ancora non sorpassata è più importante punire che prevenire i casi di malattia, chi comunica di aver riscontrato una contaminazione rischia un processo penale.

Non è raro sentire responsabili di aziende (cui è stata prudentemente delegata la responsabilità dalla dirigenza) dire in confidenza e a bassa voce: io non mi autodenuncio. Sono piuttosto convinto che, davanti all’evidenza di casi di malattia, accetterebbero di “cadere sulla propria spada” ma raramente, quando si hanno i risultati analitici, si sa con certezza che un proprio prodotto sta causando morti e feriti.

Insomma, gli incentivi in Italia sono ancora troppo a favore di dare al pubblico – se posso dire così – la soddisfazione della gogna, nei rari casi in cui si trova un colpevole, e non per tutelare la salute del consumatore.

Pensiamoci quando ci viene voglia di invocare leggi draconiane, e riflettiamo se questo sistema favorisca l’investimento in migliori tecniche di rilevamento analitiche oppure, visti i dilemmi posti dal venire a sapere che un proprio alimento è contaminato, privilegi l’inerzia.

Quando penso che un direttore di supermercato può venire trattato come un criminale perché – pur essendo praticamente impossibile analizzare ogni fornitura – ha venduto senza poterlo sapere un salsiccia contaminata da Salmonella (preparata da altra azienda), resto molto ammirato da chi, dove c’è consapevolezza, continua ad assumersi responsabilità nel settore alimentare.

@lucabuk

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