Epatite E, alimenti e gestione del rischio

Ci sono meccanismi che mi incuriosiscono, ad esempio

Quand’è che ci si accorge che un dato, un esito sperimentale, un’informazione può essere un problema?

Come fa una convinzione, basata sui fatti, di uno o pochi individui a diventare una consapevolezza diffusa ed accettata che richiede risposte pratiche da parte delle autorità?

Certamente la comprensione di questi processi è utile a chiunque (si spera a fin di bene) voglia aumentare la consapevolezza collettiva su un problema che crede di aver individuato. Al di là della prospettiva individuale, un progetto a cui ho avuto la fortuna di collaborare ha indagato su come si arrivasse a definire e modificare le attività pubbliche in materia di nutrizione – dall’introduzione e dalla promozione del sale iodato al rimborso dell’acido folico in gravidanza: i risultati sono stati decisamente interessanti, con variazioni importanti anche dove la scienza è fondamentalmente la stessa.

Ci immaginiamo che

 

gli scienziati conducano esperimenti ed analizzino dati, pubblicandone i risultati su riviste sottoposte a peer-review o parlandone in congressi prestigiosi;

 

funzionari solerti e qualificati leggano ed ascoltino, consultino gli scienziati necessari e poi intervengano, se utile, proponendo delle misure concrete, tra cui ulteriori studi o incentivi o divieti o altre azioni istituzionali.

Le cose sono in realtà un po’ più complesse, e penso che pochi credano che le cose vadano in questo modo, almeno in Italia.

Purtroppo quando i dati scientifici vengono ignorati, e i problemi ci sono davvero, prima o poi esplodono, e la mancanza di preparazione causa danni ingenti, anche alla salute e alla vita delle persone.

 

Quando il problema si presenta davvero, con morti e “feriti”, c’è sempre qualcuno, con cattedra o meno, disposto a dichiarare che si tratta di un fenomeno del tutto inatteso e imprevedibile.

 

Forse un giornalismo, anche scientifico, serio e coraggioso potrebbero aiutare.

Ma vediamo un caso concreto.

Pochi giorni fa, il DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs), ministero britannico che curiosamente mette insieme ambiente, alimenti e agricultura, in collaborazione con gli uffici di sanità pubblica, ha pubblicato il suo rapporto 2012 sulle zoonosi includendo per la prima volta l’epatite E.

Stiamo quindi assistendo in tempo reale al passaggio da un’ipotesi di lavoro, la trasmissione della malattia attraverso gli alimenti, all’accettazione ufficiale come realtà comprovata su sui si deve intervenire.

I dati di partenza sono studi che mostrano un’associazione tra casi di malattia e consumo di prodotti a base di carne di maiale, l’aumento molto sostenuto di casi autoctoni (cioé non legati a viaggi in paesi a rischio) causati dal genotipo 3 (fortunatamente meno severo degli altri genotipi del virus) e, infine, il ritrovamento del virus, nel Regno Unito, nel 10% dei campioni di salsiccia analizzati (in verità i campioni nello studio erano pochi per stimare la prevalenza della contaminazione).

Perché ci sia questo aumento di incidenza nell’uomo non si sa, ma si sa che, pur in forma asintomatica, il 49% dei maiali inglesi potrebbe essere infetto. Quindi, è probabile che ci sia un problema emergente, di natura crescente.

L’epatite E (HEV) è antipatica perché causa un 1-12% di casi fulminanti (ma il genotipo 3 è meno aggressivo, spesso asintomatico) e colpisce con particolare severità le donne al terzo trimestre di gravidanza, come spiega l’Istituto Superiore di Sanità. Una cottura che permetta al cuore del prodotto di superare i 71 C risolve il problema (cinque minuti in padella o cinque minuti in acqua bollente, ma come per tutti i rischi alimentari il termometro casalingo, ormai disponibile facilmente, è lo strumento corretto).

Pubblicato di recente è il resoconto di un focolaio epidemico nel Lazio, con cinque casi, fortunatamente non fatali anche se con periodi di ospedalizzazione di due-quattro settimane, questa volta di genotipo 4, con alimenti associati incerti. Come si evince sempre dall’Istituto Superiore di Sanità, un trend di aumento di casi autoctoni c’è anche in Italia e c’è stato un aumento dell’attenzione (ricordo del resto un intervento già anni fa ad una conferenza dell’Istituto su questo tema).

Insomma l’attenzione scientifica c’è, il caso di studio da osservare al microscopio su come risponderanno i due paesi (UK e Italia) è pronto, con il Regno Unito già disposto a trattare l’epatite E come zoonosi trasmessa dagli alimenti.

Vedremo come risponderà l’Italia.

Nella mia esperienza il passaggio della consapevolezza dalla comunità scientifica ai cosiddetti gestori del rischio, cioè funzionari e, in alcuni casi, politici, è sempre critico.

Spero solo di non trovarmi a leggere, tra qualche anno, come commento ad un’emergenza di epatite E, che si tratta di un problema del tutto nuovo e inatteso.

@lucabuk

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