Intervista a Deborah Piovan, agricoltrice che non dice no agli OGM

Nei giorni scorsi, a Expo2015, un gruppo di ricercatori e agricoltori del Farmer Scientist Network ha fatto un gesto simbolico per riaprire il dibattito sull’uso di OGM in agricoltura. Tra loro Deborah Piovan, agricoltrice italiana che coltiva mais, frumento e soia e non vorrebbe rinunciare a priori a coltivare OGM sulla sua terra. L’abbiamo intervistata.

Perché un’agricoltrice italiana dovrebbe voler coltivare OGM?

Negli ultimi anni per noi agricoltori è diventato sempre più difficile competere con altri Paesi dove è concesso lavorare in collaborazione con la ricerca scientifica pubblica e privata. A noi e ai ricercatori italiani invece un’intera branca del progresso è preclusa. Il mais in Italia, come anche in Spagna e nel sud della Francia, è attaccato da un insetto particolarmente aggressivo che si chiama piralide. Le ferite che lascia su pannocchie, gambi e foglie portano allo sviluppo di funghi e delle loro micotossine, sostanze altamente cancerogene. Il mais coltivato in Italia viene utilizzato soprattutto per produrre mangimi, pertanto, se i maiscoltori vogliono poter vendere il loro mais, devono proteggerlo dalla piralide con trattamenti insetticidi.

E questo cosa comporta?

Ogni anno, sulla superificie coltivata a mais in Italia, si utilizzano più di 100.000 litri di insetticidi: un giro d’affari per le multinazionali della chimica di 45 mln di €. Se potessimo seminare mais Bt, l’unico ogm autorizzato alla coltivazione in Europa, eviteremmo questi trattamenti. Ma non ci è concesso. Così la nostra produzione continua a calare, noi continuiamo a trattare, e le importazioni anche da Paesi, che seminano lo stesso mais Bt che ci è vietato, continuano ad aumentare.

Oltre al danno la beffa?

Sì, perché finisce che i nostri allevatori danno da mangiare alle loro vacche, manzi, maiali, polli proprio quel mais ogm che non possono coltivare, perché è contenuto nei mangimi che comprano. Stessa cosa accade per la soia: importiamo circa il 90% della soia che serve a fare i mangimi, ed è in buona parte ogm, e con il latte e le carni di quegli animali si fanno i famosi prodotti Made in Italy.

Perché ha scelto di aderire a questo gesto simbolico in Expo?

Sono venuta in Expo insieme al Farmers Scientists Network per cercare di far passare questo messaggio anche al grande pubblico: è necessario conoscere le coltivazioni ogm prima di giudicarle.

Insieme a lei c’erano agricoltori, ricercatori, professori universitari e studenti di diversi Paesi europei. Tutti indossavate una maglietta con scritto appunto: “Gm crops: know before judging” (OGM: conoscili prima di giudicare). Perché avete scelto questo messaggio?

Si dovrebbe garantire libertà di scelta per le aziende agricole e libertà di ricerca per gli scienziati europei. La gente ha paura delle modificazioni genetiche, ma deve sapere che avvengono continuamente in natura, anche fra organismi lontanissimi da un punto di vista evolutivo, come piante e batteri. Sono millenni che l’uomo modifica geneticamente ciò che coltiva e mangia: è così che abbiamo addomesticato le piante selvatiche. Inoltre ogni ogm autorizzato alla commercializzazione in Europa è stato vagliato dall’Efsa, l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare, con una procedura severissima. Lo stesso vale per l’unico ogm autorizzato alla coltivazione in Europa, il mais Bt, che però in Italia, ribadisco, non ci è concesso seminare. Inoltre, dall’analisi dei molti studi oggi disponibili, l’Efsa ha concluso che non si può a priori dire che gli ogm siano pericolosi, e che anzi sono spesso più sicuri per l’ambiente e il consumatore.

Ed Expo, secondo voi, era la sede giusta per lanciare questo messaggio.

Expo è la sede deputata a parlare di questo: la sfida di Expo2015 è nutrire il pianeta, sfamare il mondo, che per me, agricoltrice significa produrre di più senza aumentare la pressione sull’ambiente. Credo che dalla genetica possa arrivare una delle risposte a questa sfida: la ricerca, anche pubblica, sta lavorando su piante che utilizzino meno acqua, meno fertilizzanti, che si difendano da parassiti e malattie senza l’intervento della chimica. Ma nulla può uscire dai laboratori. Non si permette che si facciano delle prove di coltivazione. Perché agli agricoltori e ai cittadini europei si vuole chiudere questa strada?

Questo gesto “simbolico” a cosa servirà?

Mi piacerebbe che dopo questa nostra azione pacifica la gente decidesse di informarsi per capire. Di informarsi da fonti certe, scientifiche, affidabili. Troppi interessi hanno inquinato il dibattito sull’argomento, ma i fatti sono fatti e non si possono falsare: il peer reviewing, a cui vengono sottoposte le pubblicazioni scientifiche è un meccanismo formidabile, in grado di dare serenità a chi cerca fonti sicure. Paolo De Castro ha in questi giorni chiesto che sull’argomento ogm si apra un dibattito serio, scientifico, sereno, che possa dare delle linee guida concrete alla politica europea. Solo con un dibattito di alto livello si potrà uscire da questa imbarazzante situazione che discrimina una tecnologia invece che valutare con razionalità i suoi prodotti. Mi piacerebbe che la politica capisse che solo dando libertà di scelta alle imprese queste potranno cercare la loro via per competere: non c’è una sola ricetta per salvare l’agricoltura italiana.

Puntare sul tipico o sul biologico non basta?

Le produzioni di nicchia, il biologico, il tipico, sono una fetta di mercato molto interessante e gli agricoltori che vi operano godono di tutta la mia stima. Ma è una nicchia talmente piccola che se tutti gli agricoltori italiani decidessero di occuparla sarebbe un massacro economico. Imporre scelte economiche porta sempre a sfaceli, la storia lo dimostra. Mi piacerebbe che la società chiedesse alla politica di mettere i nostri ricercatori in grado di fare il loro lavoro in libertà: potrebbero dare delle risposte meravigliose ai problemi che affliggono il nostro Paese in tema di agricoltura, ambiente e produzioni alimentari. Si dice che il tempo è galantuomo e alla fine la verità emerge sempre: non ho dubbi che accadrà, ma spero non sarà troppo tardi per salvare l’agricoltura e la ricerca italiane.

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